IL VIAGGIO 2009

                                                                                               “E tu, quando vieni in Africa con noi?”
                                                                                                                   “Sono qui per questo!”

Quando a dicembre squillò il campanello di casa mia, ed andai ad aprire la porta, non avrei mai pensato di trovarmi davanti il dott. Luciano Strizzolo.

La sorpresa fu tanta che esclamai una piccola frase di stupore, subito il suo sorriso mi tranquillizzò. Lo feci accomodare e ci scambiammo i convenevoli saluti. Dopo qualche secondo mi chiese come andava con i miei viaggi in terre lontane, allora cominciai a raccontargli con enfasi, dove sarei andata, da dove ero appena tornata, dei progetti che noi dell’associazione Naluggi Uganda abbiamo realizzato e di quelli futuri.

Lui mi ascoltava con attenzione sorridendo, fu allora che mi accorsi che stavo parlando da un po’ di tempo e non sapevo ancora il motivo della sua visita, così, per dargli la parola, gli feci di getto una domanda, convinta che la risposta sarebbe stata purtroppo negativa, “E tu, quando vieni in Africa con noi?”. “Sono qui per questo” mi rispose, allora dovetti sedermi per riprendermi dallo stupore.

Siccome non avevo capito chiaramente cosa intendesse per “Sono qui per questo”, gli prestai tutta la mia attenzione. “Ti ricordi – mi disse – quando un giorno in ospedale stavi parlando delle tue esperienze con una tua collega, io stavo passando per caso e mi avete coinvolto nel vostro racconto? Quello che ho sentito in quei pochi minuti, mi ha toccato profondamente tanto da venirti a cercare – ed aggiunse in tono serio – in questo momento della mia esistenza, sento il bisogno di dare, o fare qualche cosa, per quanto mi è possibile, per le persone in difficoltà, per coloro che non hanno le opportunità che abbiamo noi, per quelle genti lontane di cui ti ho sentito raccontare.

Conosco dei colleghi che operano con “Medici senza frontiere”, ci sono delle associazioni di medici che lavorano in diverse parti del mondo con le quali potrei mettermi in contatto, ma preferisco partire dalla gavetta, con umiltà, quindi mi affido a te per dei consigli su cosa fare e come muovermi”.

Ebbi un attimo di difficoltà a riprendermi per quanto appena ascoltato. Conosco il dott. Strizzolo da molto tempo, abbiamo collaborato insieme alcuni anni in medicina, all’ospedale di Palmanova, dove ho lavorato come infermiera per 30 anni. Il nostro rapporto è sempre stato di fiducia e stima, credo reciproca. Ora è qui, a casa mia, e mi chiede consigli su come mettere a disposizione la sua esperienza di medico e il suo tempo prezioso a favore delle popolazioni africane. Mi sentii onorata e confusa per questa sua disponibilità e gli esposi in modo molto semplice il mio pensiero.

“Se vuoi trovare una risposta alle tue domande – gli dissi – devi prima calpestare il suolo africano, devi annusare gli odori di quella terra e guardare i suoi colori, devi toccare le mani della gente, andare nei loro villaggi, sederti per terra, sulle stuoie, nelle loro case, mangiare con loro, ridere con loro e piangere con loro, dopo di che, quando tornerai, capirai da solo cosa vorrai fare”.

Poi istintivamente gli feci una proposta: “Se vuoi – gli dissi – io conosco già quei posti e mi farebbe piacere farli conoscere anche a te, proprio ora che stiamo costruendo un piccolo ospedale, saresti il primo medico che mette piede in quei villaggi – ed aggiunsi – sarebbe fantastico”. Per farla breve, dopo un paio di giorni eravamo in agenzia per prenotare il volo che ci avrebbe portati in Uganda dal 13 al 30 marzo scorso.

Ogni giorno che abbiamo trascorso nella parrocchia di Naluggi, villaggio in cui la nostra associazione ha convogliato il maggior numero dei progetti, è stato intenso e pieno di sorprese. Mi ricordo quando abbiamo chiesto a suor Christine, che lavora nel dispensario di Naluggi, l’opportunità di assistere un parto, a qualsiasi ora, anche della notte, le abbiamo detto. La sera dopo, alle ore 02.00, vennero a chiamarci perché una signora stava per partorire. A dire di suor Christine, che aveva visitato la donna, il parto si presentava difficile. Dopo un paio d’ore, tuttavia, la suora ci consigliò di tornare a dormire con la promessa che ci avrebbe eventualmente chiamati al momento opportuno. Alle ore 08.00, il bambino non era ancora nato, suor Christine era molto preoccupata, tanto da decidere l’ospedalizzazione di quella donna che, il pikup a disposizione delle suore fino a Mityana, distante un paio d’ore, attraverso strade piene di buche.

Mentre stavamo organizzando la partenza, il bambino decise improvvisamente di nascere! Subito ci siamo resi conto che il piccolo respirava molto male, non dava segni di pianto, e dalla bocca usciva una quantità notevole di schiuma grigiastra. Il dott. Strizzolo non ci mise più di due secondi per decidere che quel piccolo doveva essere aspirato, per evitare il peggio.

Io ero molto preoccupata. La suora, alla richiesta del medico, tolse da un armadietto e appoggiò per terra una specie di scatola di ferro, attaccata alla quale c’era una sonda di gomma, alla cui estremità venne raccordato un sottile sondino, con il quale poter aspirare il piccolo. L’aspiratore funzionava tramite un pedale, che la suora cominciò a pestare freneticamente dall’alto in basso. Il dott. Strizzolo intanto, si era infilato frettolosamente un paio di guanti, un attimo dopo il sondino nelle mani giuste, entrò in una delle piccole narici, leggero come una piuma quando ondeggia nell’aria, cominciando a risucchiare quel materiale schiumoso.

Guardavo il dott. Strizzolo con sguardo interrogativo, quando mi disse: “Non ti preoccupare, stai tranquilla, ce la faremo”. Dopo minuti interminabili, il sondino venne tolto e dal sorriso del medico capii che il piccolo respirava molto meglio, ma non piangeva ancora, allora la suora lo prese per i piedi, lo sollevò, e tenendolo la testa in giù cominciò a dare dei colpetti sotto quei piedini, finché un sonoro vagito si levò riempiendo la piccola stanza.

Una immensa gioia ci prese tutti quanti, io cominciai a saltare dalla felicità, la suora, l’infermiera e il dott. Strizzolo ridevano a crepapelle, un po’ per la felicità di sentire quel pianto benefico e un po’ per i salti di gioia che facevo. Le due settimane trascorse tra quella gente con il dott. Strizzolo, sono state molto intense, piene di emozioni quotidiane, che, se non si presentavano spontaneamente, andavamo a cercare perlustrando a piedi tutti i sentieri sconosciuti che si trovavano sul nostro cammino.

Per me è stata un’esperienza unica, che mi ha dato molto, e di questo devo ringraziare l’amico Luciano.

Claudia Pecile
Una società dell’utopia

Germogli nuovi crescono ogni giorno,

alcuni spontanei altri frutto di semi

che il vento ha trasportato da molto lontano

Parlare dell’Uganda equivale per noi a parlare di una società dell’utopia, dove non esiste la vecchiaia o meglio, non esistono i vecchi; non esistono nemmeno gli adulti nel senso della densità nella popolazione che noi conosciamo; non esiste storia visibile attraverso le tracce del passato e quindi non esiste memoria storica; probabilmente non esiste nemmeno il concetto che noi attribuiamo al futuro, fatto di proiezione sia individuale che di società in un qualche modello di evoluzione prevedibile.

Tutto attorno traduce un eterno presente: le persone non sono trasformate dal tempo perché ancora bambini o giovani, in ogni parte ed in ogni località, dediti alle occupazioni della quotidianità che diventa un interminabile giorno; la percezione è quella che non esista il declino individuale perché non si trascina per strada con l’immagine di un vecchio che arranca, ansima, cade, giace. No, la vecchiaia con le sue malattie sono sconfitte.
Oh, si: la povertà si coglie ed è diffusa. La vedi ad esempio nei vestiti logori di bambini, giovani e donne, ma non si traduce in una presenza angosciante, proprio perchè così diffusa … in cui tutti sono uguali, sembra che nessuno badi a quei tessuti stinti, logori, traforati da buchi insistenti quasi fossero di termiti, sudici perché indossati giorno e notte in assenza di qualsiasi cura del corpo.
La vedi nella mancanza d’acqua che genera quel continuo pellegrinaggio di bambini per attingere con le immancabili taniche gialle l’acqua spesso putrida delle pozze, giorno e notte, ognuno con un peso rapportato alla sua corporatura: tanichetta per corpicino, tanica per gambe svelte e sottili, grossa tanica per ragazzi. E’ però un muoversi gioioso, pronto al gioco, facile al sorriso.
La vedi per l’inverosimile modo di provvedere alla nutrizione quotidiana di un’infinità di bambini, costantemente esuberante rispetto alle ragionevoli possibilità offerte dal poco terreno coltivato a disposizione, con quelle rare gambe di mais che sembrano una promessa di qualcuno, consapevole di non riuscire a mantenerla, quelle radici di manioca che solo un quotidiano miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci riuscirà a rendere ancora disponibile, e lo stesso per i fagioli, le patate, le banane da matoke.

Ma cosa è successo a questa società per renderla così diversa dalla nostra, con vecchiaia e malattie scomparse dalle strade, presenza straripante di bambini e giovani vivi e spesso gioiosi, assenza di paure individuali e collettive per il futuro pur con una disponibilità di beni nel presente straordinariamente ridotta…?

La morte, la morte ha trasformato la realtà a nostra misura in utopia. La morte quotidianamente cammina tra quelle capanne, in quel reticolo infinito di strade e con noncuranza, senza conflitto e contrasto porta lontano una fila lunghissima di bambini, ragazzi, giovani … degli adulti rimasti.

La morte si chiama AIDS, malaria, polmonite, dissenteria… cambia di nome ma la stessa signora vestita di nero, silenziosa, discreta, accettata alla stessa stregua del vento e della pioggia che arriva con un breve annuncio di nuvole.
La morte ha tolto a questa gente la memoria del passato, quella custodita nell’esperienza delle persone, costringendo ogni individuo a iniziare una propria esperienza priva di esperienza, con il risultato che tutto è straordinariamente fermo e immutato: le capanne di fango, sembra che, come i nidi degli uccelli, siano costruite per un’istintiva abilità; le pozze da cui attingere l’acqua su cui è steso solo il tronco di legno per appoggiare le ginocchia dei bambini ma mai un muro per contenere il fango o limitare l’accesso del bestiame; la terra coltivata, strappata alla foresta con la devastante disinvoltura degli incendi, continui, sparsi in ogni regione, la terra che, dopo una lunga fase sterile per gli incendi subiti, vedrà solo una zappa aprire solchi incerti e disordinati, una zappa nelle mani di un bambino o una donna che, con rassegnata fatica, affideranno dei semi alla sua materna benevolenza.
Come in una campagna piatta puoi scorgere da lontano un albero o un arbusto che interrompe la linea continua dell’orizzonte, così in quel paese è possibile cogliere in alcune località i segni lasciati dall’associazione Naluggi-Uganda, segni che non modificano l’orizzonte il cui scorrere rimane immutato, ma che tracciano linee semplici e sicure che a tratti lo addolciscono: una cisterna per una comunità …alta verso il cielo con bandiere multicolori; tetti semplici di lamiera ma finalmente dignitosi per coprire scuole, dormitori di ragazzi, dispensari …; scuole dall’intonaco fresco e dipinto da un colore di tavolozza che risaltano nel verde e nel rosso della terra; un nuovo ospedale che apre nel paesaggio un nuovo punto di riferimento, visibile dalle colline circostanti.

È una nuova, piccola realtà, fatta ancora di frammenti di un mosaico, che attende di essere via via perfezionato con l’aggiunta di altre tessere, per offrire un’immagine sempre più nitida di un progetto già presente nella mente delle persone che da anni vi lavorano. Silenziose, discrete, tenaci, rigorose, concrete.

Questa trama si va tessendo in maniera via via più certa ed offre a chi vi vuole partecipare l’ingrediente insostituibile della trasparenza: – “Sappiamo di dovere innanzitutto rispettare l’esigenza di glastnost” ci ha più volte ripetuto con ostentato stile europeo anche padre John Lutalo, in tanti passaggi di dialogo, che insistentemente andava sulla necessità di tornare a casa fornendo una documentata rassicurazione alle persone che hanno fornito il loro aiuto, con le adozioni e le altre forme di donazione a favore dell’Associazione.
“Trasparenza” e “Impegno” abbiamo ripetuto anche noi con umiltà, ma anche decisione negli incontri con le tante comunità. E ai giovani che hanno ricevuto il privilegio di poter studiare fino ad un mestiere o una professione, abbiamo indicato un nuovo motto: “SEI AIUTATO PER AIUTARE”, intendendo il richiamo a restituire alla comunità dove sei vissuto e hai studiato, almeno qualche anno di impegno, mettendo a disposizione le tue abilità e cercando di favorire la crescita individuale e sociale.
Con alcune donne poi si sta lanciando una sfida semplice ed ambiziosa: loro, che sono la vera risorsa sociale che ha custodito il senso dell’impegno e della dignità, sono state chiamate a riunirsi per produrre semplici oggetti di artigianato che noi possiamo acquistare, offrendo una prospettiva economica utile per il sostegno di quello che rimane della famiglia e utile per il loro affrancamento sociale. E’ stata straordinaria la loro capacità di risposta, fatta di immediata discussione delle modalità di lavoro e di aggregazione con cui iniziare da subito.
Le donne.

Ogni alba da quelle parti è avvolta nella bruma, è fresca, si trasforma scorrendo rapidamente tutti i colori di un prisma prima di cedere alla chiara luce del giorno. Una bellezza immutata per un benevolo ed inesauribile miracolo che sembra non curarsi di tanta insipienza umana. Germogli nuovi crescono ogni giorno, alcuni spontanei, altri frutto di semi che il vento ha trasportato da molto lontano.

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